Il peccato di gola è un qualcosa che da sempre è insito nell’uomo. Desiderare il cibo per il solo piacere di godere di esso, oltre lo stesso sfamarsi, è qualcosa che oggi è moralmente accettato in nome della cultura, ma un tempo era vergognoso perfino oltre la lussuria. Eppure, la fame stessa non rappresentava univocamente la bestialità umana, bensì poteva accarezzare le più alte vette dello spirito laddove si faceva un tutt’uno con il desiderio della conoscenza. Lo stesso Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, è combattuto tra un cibo negativo se associato alla fame materiale e un cibo positivo se emblema del sapere.
Dante Alighieri: il vino e il cibo nella Divina Commedia
Dante Alighieri è nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321: si tratta quindi di un uomo del Basso Medioevo. Erano tempi complessi per il cibo e per l’atto di mangiare in particolare, soprattutto a causa della Chiesa che, con i suoi calendari liturgici, influenzava gli usi alimentari.
- Durante i periodi di digiuno (mercoledì, venerdì, alcuni sabati e altre date), in quaresima e nel periodo precedente l’avvento non si consumavano carne, latticini e uova. Era possibile consumare tutto il pesce. Queste privazioni non nascevano per una cattiva considerazione di alcuni cibi, ma per punire il corpo costringendolo a una sorta di moderazione.
- La definizione di pesce fu ampliata a tutto ciò che gravitava nelle acque dei fiumi e dei mari includendo mammiferi come balene, uccelli come oche e addirittura castori. Mangiare una balena (letteralmente) era una curiosa scappatoia dal digiuno. Il pesce era preparato e conciato per apparire un prosciutto (e chissà che qualche volta non lo fosse perfino).
- Non esistevano prescrizioni particolari circa le quantità pertanto anche nei giorni di magro si allestivano sontuosi banchetti mentre alcuni membri del clero aggiravano il digiuno con stravaganti interpretazioni della Bibbia.
Dante Alighieri: un uomo del Basso Medioevo e Federico II di Svevia
Il Basso Medioevo è stato un periodo particolarmente interessante dal punto di vista enogastronomico perché lo scambio culturale tra i popoli si rivelò così fruttuoso da innescare una spontanea globalizzazione della cucina.
La figura più emblematica del tempo fu sicuramente quella di Federico II di Svevia (Jesi 1194 – Fiorentino di Puglia 1250), Imperatore del Sacro Romano Impero, anfitrione, protettore della scienza e delle arti e buongustaio. La sua personalità poliedrica e affascinante è stata tutta la vita combattuta tra conciliare il moralismo del suo tempo e abbandonarsi ai piaceri della buona tavola. Studiato oggi per le sue capacità come legislatore, tanto da creare nell’Italia Meridionale un regno moderno ed efficiente, era in realtà un grande appassionato di cucina, caccia e falconeria. Fu una fonte di ispirazione per la letteratura siciliana, in particolare per quella gastronomica che si arricchì di testi culinari. Inoltre Federico II parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, arabo, greco e francese) e questo favorì enormemente il diffondersi della poesia siciliana, apprezzata anche dal quasi contemporaneo Dante Alighieri. Fu due volte scomunicato da Papa Gregorio IX che vedeva in lui “l’anticristo” per il suo essere “miscredente, filoarabo, gaudente, goloso ed erotomane” (Federico II amava sollazzarsi con bellezze orientali) e per il fatto che l’imperatore si ostinava a mettere in discussione il potere temporale della Chiesa.
Appare evidente come le rigide regole morali che vigevano indomite al tempo di Dante definissero lo stesso concetto di peccato di gola. Un peccato peggiore della lussuria: se questa ammetteva l’interazione con un altro essere umano, per la fame materiale l’uomo interagiva solo con il suo stesso corpo, non diversamente da una bestia.
Il vino e il cibo nell’inferno di Dante Alighieri
Dante calpesta le ombre dei dannati (qui non sono nemmeno elevati al grado di anima, quasi totalmente smaterializzate, dal corpo al loro stesso essere) senza preoccuparsene mentre è straziato dagli abbai furiosi di Cerbero, il mostro guardiano degli inferi della mitologia greca. Si tratta di un cane mastino gigantesco con tre teste e il corpo ricoperto di serpenti velenosi (al posto dei peli) che si rizzano e fanno sibilare le loro paurose lingue a ogni latrato. Le tre teste rappresentano il passato, il presente e il futuro, ma anche l’ingordigia e la discordia.
Nel Canto VI i golosi nel terzo cerchio se la passano assai male: sotto le urla strazianti di Cerbero, così alte da far desiderare loro d’esser sordi, vengono squartati dal mostro mentre sono ricoperti da una gelida fanghiglia che piove incessantemente dal cielo. Le immagini con cui Dante descrive la scena sono raccapriccianti. Il cibo nell’Inferno è disgustoso e associato alla sporcizia, alla putrescenza e alla bestialità.
Dante dà uno spaccato anche sulla figura del cuoco, all’epoca ben lontana dell’eroe televisivo alla Locatelli, Cannavacciuolo e Barbieri di Masterchef. Lo dimostra nel canto XXIX quando paragona il gesto di grattarsi dei falsari, dannati nella decima bolgia dell’ottavo cerchio al gesto di togliere le scaglie dai pesci: sì traevan giù l’unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie / o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
Il vino e il cibo nel purgatorio di Dante Alighieri
Nel Purgatorio il cibo e il vino assumono una connotazione più neutra, ma ancora lontana dall’essere positiva: basti pensare a Dante, quando nel XV canto si lamenta di essersi svegliato con gli occhi velati e le gambe pesanti a causa del vino. Eppure qui comincia a comparire un nuovo concetto di cibo associato alla fame spirituale, come accade nel canto XIX, quando Dante si paragona a un falco che di colpo alza il capo al richiamo del padrone che gli dà del cibo, qui metafora dell’offerta del cibo spirituale per la salvezza. I golosi qui, seppur puniti, subiscono un destino più lieve grazie alla loro volontà di redenzione: i toni grotteschi e bestiali sono così abbandonati.
Tuttavia anche i golosi del Purgatorio sono puniti: mentre sentono profumi deliziosi e lo scroscio rinfrescante di una fonte, cantano con le labbra arse i salmi senza poter mai saziare la loro fame e la loro sete. Qui i golosi sono rappresentati come scheletri sfigurati dalla magrezza, ma hanno più dignità di quei golosi all’inferno ormai solo ombre, avvolti e parte stessa di una poltiglia indistinguibile. Al Purgatorio Dante incontra l’amico di gioventù Forese Donati (Bicci Novello), colpevole di una incontrollabile passione verso le pernici, ormai divorato dalla magrezza tanto da essere irriconoscibile.
Anche una figura rappresentativa dell’ elevazione spirituale come Papa Martino IV è in Purgatorio: nei giorni di magro imposti dalla Chiesa mangiava e beveva ghiottonerie pregiate come l’anguilla e la Vernaccia. Del resto il peccato di gola poteva lambire qualsiasi anima, dal volgo di strada alle sale del più alto clero.
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Il vino e il cibo nel paradiso di Dante Alighieri
Nel Paradiso il cibo – nominato con un linguaggio fine – è sempre rappresentato in modo positivo: si parte dal canto I con il mito di Glauco, il pescatore di Beozia che, dopo aver mangiato un’alga prodigiosa, diventa uno degli dei del mare, metafora dell’eucarestia cristiana. Il corpo di Cristo, se mangiato, trasforma l’uomo in un essere speciale.
Qui il cibo e il vino sono legati per lo più alla fame di conoscenza, tanto che nel canto IV Dante paragona due dubbi che abitano il suo cuore a due cibi succulenti. Del resto, nel canto III, il poeta scrive “s’un cibo sazia e d’un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia” in riferimento al cibo spirituale che sazia solo se compreso.
Tante altre immagini luminose di accudimento si susseguono nei canti successivi: qui il cibo non rappresenta mai il peccato di gola, ma piuttosto è una metafora facilitatoria che rende comprensibile a chiunque temi più elevati.
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Chiara Bassi
Riflessioni sul peccato di gola
Il peccato di gola ha cambiato connotazione col trascorrere degli anni. Oggi come ieri, se associato all’ingordigia, è un peccato dalle conseguenze visibili sul corpo in quanto questo si trasforma fino a diventare enorme. Eppure, se ieri era appannaggio solo delle classi sociali più ricche poter mangiare fino all’esasperazione delle forme, oggi è un peccato low cost grazie alle innumerevoli fonti di cibo spazzatura a poco prezzo.
Si può quindi dire che il peccato di gola ha assunto due forme parallele: il peccato di gola legato alla fame materiale, quello che devasta il corpo e lo rende tutt’oggi oggetto di scherno ed emarginato – anche se moralmente accettato, e il peccato di gola legato alla fame spirituale, alla conoscenza dei cibi e dei vini, che spesso non ha particolari conseguenze sulla fisicità in quanto legato alla qualità e non alla quantità ed è moralmente perfino ammirato.
Del resto, paragonare il sommelier, il gastronomo e più in generale la figura dell’intenditore – seppur anch’esso ben pasciuto – all’obeso che mangia qualsiasi schifezza purchè si palesi in un quantitativo smisurato è inaccettabile. Si può quindi dire che oggi solo il peccato di gola spirituale è ancora riservato alla popolazione benestante, ma l’essere benestante è condizione necessaria, ma non sufficiente, per svilupparlo: serve cultura, altra condizione necessaria, ma non sufficiente.
Dante Alighieri: dalla fame materiale alla fame spirituale
Appare evidente l’ostinata avversione di Dante Alighieri al lusso e ai piaceri della buona tavola. Se quanto detto non bastasse, si può rammentare un fatto realmente accaduto durante la sua lunga vita. L’allora re di Napoli Roberto d’Angiò lo invitò a corte per ben due volte. La prima vide un Dante assai mal vestito, motivo per cui fu fatto sedere molto lontano dal re ed egli si offese al punto da mangiare velocemente e andarsene di gran carriera. La seconda vide un Dante vestito elegantemente, motivo per cui fu fatto sedere molto vicino al re ed egli si versò cibi e bevande sulle preziose vesti dicendo – in modo che tutti potessero sentirlo – che erano state quelle vesti a ricevere tale trattamento e pertanto esse avevano più diritto di lui di godere del lussurioso banchetto.
Si può pertanto asserire che Dante Alighieri sia stato un precursore nella separazione della fame materiale dalla fame spirituale. Se oggi si tendono a incasellare dentro all’espressione “peccato di gola” entrambe queste forme di attaccamento al cibo, esse assumono connotati opposti. Il vero peccato di gola dantesco è quello associato all’ingordigia insaziabile del corpo, mentre il desiderio di conoscenza – imputabile ad ogni sommelier e gastronomo degno di questo nome – è da subito riposto in paradiso, là dove il volto di Dio è rappresentato da un infante che ciuccia affamato dalla tetta della madre. Un’immagine positiva e accudente, anche se può sembrare difficile affiancarla alla ricerca dell’emozione provata nella roteazione del calice o durante l’atto della masticazione di un cibo.
Ma non è forse l’intenditore affamato e goloso di sapere proprio come quel fanciullo?
Fonti:
- Revelli Sorini A., Cutini S., Rebuffo F.V., Hasbun S., “La cucina di Dante e Boccaccio”, Il formichiere, 2021, Foligno (PG)
- Bassi C., “Sommelier: il manuale illustrato”, Cammeo DiVino, 2022, Reggio Emilia
- Le immagini – di pubblico dominio – sono quadri di Gustave Doré (Strasburgo 1832 – Parigi 1883), pittore del Romanticismo francese.
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