In un periodo storico dove i cuochi – forse senza particolari pigli creativi – si inventano la ricetta tradizionale “rivisitata” e i vignaioli definiscono il loro stile di vino “tra tradizione e innovazione”, è un’interessante spunto di riflessione leggere la lettera che il gastronomo Luigi Carnacina inviò al collega Luigi Veronelli. Questa lettera è stata pubblicata sulla rivista “Il Gastronomo” numero 13 di gennaio – marzo 1960 diretta dallo stesso Veronelli. L’oggetto sono gli spaghetti all’Amatriciana, un piatto codificato che tutt’oggi è mangiato con sommo piacere e caratterizza la cucina laziale, già SGT (Specialità Tradizionale Garantita dall’Unione Europea) da marzo 2020.
Spaghetti all’amatriciana: tra tradizione e innovazione?
Una frase provocante a cui risponde con grande intelligenza Luigi Carnacina (Roma, 1888 – 1981) in una lettera indirizzata a Luigi Veronelli. Era il 1960 e già si litigava sul tema delle rivisitazioni delle ricette tradizionali. Del resto niente è ormai più inflazionato e nauseante della frase “tra tradizione e innovazione”, presente ormai nel sito web di qualsiasi cosa, dallo stilista di alta moda al produttore di carta igienica, dal ristorante stellato al sito di merendine spazzatura.
La lettera da Luigi Carnacina a Luigi Veronelli
Roma, li 20 Gennaio 1960
Caro Veronelli,
ho seguito con divertita attenzione la Sua contesa gastronomica con Felice Cunsulo, in particolar modo – tralasciando il… punch alla romana – per quanto riguarda gli spaghetti alla Amatriciana. È questo uno dei primi piatti di cui mi entusiasmai – s’immagini: all’età di 12 anni, circa 60 anni fa – quando le preparazioni della cucina romana… non erano quelle di oggi. Dico della cucina romana perchè questi spaghetti, nati ad Amatrice, furono fatti prepotentemente nostri, di noi di Roma. Gli usi falsano anche le cose più originali se oggi sentiamo parlare di spaghetti all’Amatriciana senza pomodoro, che altro non sono che gli spaghetti alla Marchigiana di quei beati tempi.
Ma allora, in Roma, non era ancora invalsa la moda, del resto apprezzabilissima e che conferma, ce ne fosse bisogno, la fantasia e la genialità romane, per cui ogni trattore presenta i “suoi” spaghetti (vorrò citare, così, a memoria, quelli alla Carbonara, alla Carrettiera, alla Secondino Freda). Allora gli spaghetti costantemente richiesti dagli avventori erano; alla Matriciana (e lo scrivo di proposito così, senza apostrofo), alla Marchiciana (sic), col sugo finto, al tonno, alle alici, a cacio e pepe, cui s’aggiungevano, ma nei giorni di grossa festa, nelle ricorrenze, gli spaghetti col sugo d’umidità. Né queste mie asserzioni si basano soltanto sull’amore ch’io ho sempre portato per le cose della cucina: io a 12 anni e 1 giorno in cucina c’entravo – non mi vergogno a dirlo, è anzi motivo d’orgoglio per chi ha fatto una modesta carriera – c’entravo come garzoncello d’osteria, in un’osteria tenuta da chi, il giorno innanzi, mi aveva fatto da compare di prima Comunione, buon amico di mio papà. L’osteria era frequentata da vetturini, da conduttori d’albergo (raccoglievano i clienti “prenotati” alla stazione e passavano l’attesa dei treni nelle osterie vicine; la mia si trovava in via Principe Umberto ove oggi è l’albergo dell’Urbe) e, soprattutto, dai portatori di vino dei Castelli. Questi, uomini di forte fisico e forte gusto, scaricata la merce, frequentavano tutte le osterie di Roma con un pasto invariabile; una libbra di spaghetti alla Matriciana (costava 12 baiocchi = 60 centesimi) e un litro di vino (da 4 a 8 baiocchi a seconda della qualità).
Li ricordo bene i confronti, le discussioni su chi tra gli osti faceva meglio gli spaghetti alla Matriciana: soprattutto su chi li faceva più correttamente, secondo quelli che erano precisi canoni regionali. Il nostro cuoco, ometto sui 60 anni, amatriciano puro, li faceva alla perfezione.
E che c’entrano gli spaghetti all’Amatriciana, prima delle infiltrazioni di nuovi metodi, più o meno saporosi, ma senz’altro non originali? Che erano prima dell’attuale corsa alla saporosità? Qualche pomodoretto spellato e fatto a pezzi, un pezzetto di cipolla tritatissima (facoltativa), niente aglio, ficcato oggi dappertutto, un pezzo di peperoncino, formaggio pecorino e, elemento principale, caratterizzante e caratteristico, il guanciale, ben magro, a pezzetti piuttosto grossi e ben rosolati ( e chi avrebbe osato usare la pancetta? Ma oggi, ahimè, si usa addirittura il “bacon”!). C’è, non bastasse il fatto regionale, una ragione tecnica: il guanciale ha la carne soda, sotto i denti sfrigola e si spezzetta, la pancetta è molle e si stira e, qui, è gommosa.
Il pomodoro, lo confermo, c’entrava solo per colorire gli spaghetti, tanto più in una città i cui abitanti sono ghiotti di spaghetti a cacio e pepe, dove il gusto di pomodoro non è di elezione. Si poteva permettere una variante, per chi li desiderava un poco più grassi: l’aggiunta d’un’idea d’olio.
Nè la mia esperienza si ferma ai primissimi passi, da che il garzoncello passò poi in via Massimo d’Azeglio da “Egidio” e poi all’osteria del Moncò in Via Vittorio Veneto (quasi un prato: là dove oggi è l’Hotel Regina) tutti apprezzatissimi osti, famosi per quei pochi piatti (mi ritorna ora tutto l’aroma della minestra romana col battuto!) e certo rigorosi esecutori della classica Amatriciana.
Oggi si tende a dar spazio alla fantasia; niente di male se non si usassero i vecchi nomi.
Le sono quindi grato, caro Veronelli, per la difesa fatta da Lei, milanese, d’un nostro piatto tradizionale e di confermarLe – con sufficiente sicurezza avendola “vissuta” – l’assoluta validità della Sua ricetta e dei Suoi appunti.
La saluto con sincera stima e cordialità.
Aff.mo Luigi Carnacina, autore, tra gli altri, di A la carte (2009)
Spaghetti all’Amatriciana rivisitati? No grazie!
In pieno accordo con Carnacina, questo articolo non vuole essere una condanna alla modernità, tutt’altro: la fantasia, la sperimentazione e l’invenzione sono quanto di più prezioso esiste. Ben vengano quindi i cuochi contemporanei capaci di creare nuove ricette, al passo delle tecnologie che evolvono e dei gusti che cambiano con esse. Quello che è assolutamente insopportabile è leggere spaghetti all’Amatriciana rivisitata preparati, ad esempio, con chissà quale ingrediente al posto del tradizionale guanciale. Per quanto si capisca la volontà del cuoco di creare una sorta di suggestione nella mente di colui che godrà del piatto finale, questa può portare ad aspettative che vengono poi facilmente disilluse: il nome passa così da benevolo a ingannatorio e l’esperienza diviene tutt’altro che positiva.
Il cuoco, così come ha creato la nuova ricetta, dovrebbe avere il coraggio di creare un nome altrettanto nuovo e libero da codici di ingredienti e procedimenti che finiscono per essere trappole della libertà sensoriale.
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Chiara Bassi
Spaghetti all’Amatriciana: ingredienti e aspettative
Del resto se si compra una bottiglia di Champagne AOC Blanc de Blancs, a prescindere dalla Maison, ci si aspetta di trovare un vino spumante metodo classico da uve chardonnay con sentori di crosta di pane, no? Non sarebbe forse un’enorme delusione ritrovarsi un vino bianco fermo con profumi floreali, anche se delizioso? Anche per gli spaghetti all’Amatriciana c’è un disciplinare rigido dove sono chiaramente scritti gli ingredienti e i passaggi ammessi, ma dato che il cibo non è come il vino e chiunque può cercare di replicarlo a casa sua, si è portati a meglio tollerare le invenzioni più originali.
Nel rispetto della ricetta originale si chiede quindi di parlare di spaghetti all’Amatriciana solo se per preparare la salsa si utilizzano guanciale, pomodoro San Marzano, vino bianco secco, peperoncino fresco o secco, sale e pepe. Per tutti gli altri piatti qualsiasi nome che il cuoco desidera va bene: è la sua ricetta “innovativa” e merita il massimo rispetto esattamente come quella “tradizionale”.
Spaghetti all’Amatriciana: un nome, una trappola
La vera innovazione è il rispetto della tradizione che si esplica anche nella creatività di un piatto accompagnato da un nome altrettanto innovativo, ma che non fa eco a nessuna ricetta codificata, nel cuore di chi l’ha trasmessa fino ad oggi. Più un nome è conosciuto, più arriva a un maggior numero di persone. Questo, anche se appare un vantaggio, è in realtà la peggiore delle trappole. Proprio perchè si conosce un piatto, si pretende di ritrovare quanta più fedeltà possibile a un gusto, come che l’essere codificato bastasse per tracciarne una mappa sensoriale omologata nei cervelli di chi lo sceglie. Scrivere spaghetti all’Amatriciana crea aspettative diverse da scrivere spaghetti, pomodoro, guanciale anche se preparati alla stessa maniera.
Il cuoco odierno ha davanti a sé una scelta: rischiare sfruttando la popolarità del nome di una ricetta tradizionale o osare di creare egli stesso un nome che verrà ricordato, mangiato e imitato nei decenni a venire.
Bisogna anche fare attenzione a che cosa vendono per guanciale. Io sono di Trieste e al supermercato trovo guanciali rotondi alti una spanna e lunghi trenta centimetri! Non mi sembra che una ganascia di maiale abbia tali dimensioni. Solo pochi salumai offrono, da noi, un vero guanciale.
Hai proprio ragione! Mi è capitata non più di 10 giorni fa la stessa cosa a Milano… poi quando il banconista ha visto il mio sguardo perplesso ne ha tirato fuori un’altro, questa volta delle giuste dimensioni! Incredibile!
“The colors in this dish remind me of a summer sunset.”
Thank you 🙂